
The Selection
Sperling & Kupfer (Pandora)
298

Molti anni dopo la Quarta guerra mondiale, in un Paese lontano, devastato dalla miseria e dalla fame, l'erede al trono sceglie la propria moglie con un reality show. Spettacolare. Così, per trentacinque ragazze la Selezione diventa l'occasione di tutta una vita. L'opportunità di sfuggire a un destino di fatica e povertà. Di conquistare il cuore del bellissimo principe Maxon, e di sognare un futuro migliore. Un futuro di feste, gioielli e abiti scintillanti. Ma per America Singer è un incubo. A sedici anni, l'ultima cosa che vorrebbe è lasciare la casa in cui è cresciuta per essere rinchiusa tra le mura di un palazzo che non conosce ed entrare a far parte di una gara crudele. In nome di una corona - e di un uomo - che non desidera. Niente e nessuno, infatti, potrà strapparle dal cuore il ragazzo che ama in gran segreto: il coraggioso e irrequieto Aspen, l'amico di sempre, che vorrebbe sposare più di ogni altra cosa al mondo. Poi, però, America incontra il principe Maxon, e la situazione si complica. Perché Maxon è tutto ciò che Aspen non sarà mai: affascinante, gentile, premuroso e immensamente ricco. E può regalarle un'esistenza che lei non ha mai nemmeno osato immaginare...
È stato un parto. Giuro, avrei preferito accompagnare Frodo Baggins nel suo viaggio verso Mordor che leggere questo libro. E sicuramente non mi sarei portata dietro The Selection come compagno di viaggio, anche perché probabilmente sarebbe andato a finire lui dentro il Monte Fato, invece che l’anello; lasciandoci ancora tutti nelle mani di Sauron. Sarebbe stata una bella cosa? Io credo di no.
Leggendo questa introduzione tolkieniana, è chiaro che cosa ne penso di questo libro – ovvero un grande NO – e vi spiego anche il perché. La copertina del libro è splendida, ma, ahimè, il contenuto è una landa desolata; la cosiddetta valle di lacrime. Comprendo perfettamente il mercato editoriale e come si muove: non so se vi ricordate, ma quando ci fu il boom di Twilight, all’interno delle librerie fu creato il “genere vampiri” (Ma PERCHÉ?). In questo periodo, il mondo dell’editoria si è tuffato – con doppio salto mortale – nel mondo delle distopie, ed è così che questo romanzo ci viene definito: una distopia. Avendolo letto, mi domando: ma dove? ma quando?! È chiaro che io e le case editrici la pensiamo in modo diverso, ma andiamo con ordine.
Prima di tutto, America Singer: potrò suonare un po’ come il puffo brontolone, ma io odio America Singer. La creatività dell’autrice si nota già dal cognome che appioppa alla sua protagonista femminile: Singer, ovvero cantante. E cosa fa la nostra America di mestiere? Ovviamente, canta. La CREATIVITÀ, signore e signori. Cognome a parte, la protagonista è noiosa, capricciosa, scialba, stupida e superficiale. Inoltre, non riesco più a sopportare queste protagoniste di Young Adult che sono tutte speciali, bellissime ma non lo sanno o non lo accettano, e che, anzi, si arrabbiano se qualcuno glielo ricorda. Un’America Singer a caso, insomma.
“Per favore, mamma, non esagerare… Sono nella media.”
“Ti prego, non chiamarmi bellissima. Prima la mamma, poi May, e adesso tu. Incomincia a darmi sui nervi”
La mia reazione è stata più o meno questa:
Il dolore quasi fisico della gente che ci ossessiona su quanto siamo belle. Chi di noi non l’ha provato? America, please, ritorna coi piedi per terra. Quello che mi fa più arrabbiare è che i destinatari di questo suo continuo sminuirsi sono delle ragazzine. È inutile fare propaganda femminista, rivendicare i diritti delle donne di poter essere belle e anche brutte, di essere semplicemente se stesse; è inutile che cerchiamo di insegnare alle ragazze di dodici o tredici anni di stare rilassate anche se hanno qualche chilo di troppo, di imparare ad amare prima di tutto se stesse e il proprio corpo, se nei loro romanzi ci sono personaggi come America Singer. È irritante.
Secondo punto, l’intreccio amoroso: chi può mai amare America Singer e tutti i suoi evidenti problemi? Gli altri due elementi del triangolo amoroso sono Aspen, l’amore della sua vita, per il quale non vuole partecipare alla Selezione, e, ovviamente, il principe Maxon, erede al trono di un regno di cui, scoprirete leggendo, non conosce nulla.
Chiamarlo triangolo amoroso, secondo me, è esagerato – almeno in questo primo libro. I tre, infatti, si “scontrano” solo a fine libro; per tutto il resto della storia, nel cuore di America sembra non esserci mai conflitto. All’inizio, per non perdere il suo rapporto con Aspen e per dimostrargli di non essere interessata a partecipare al concorso, America osa proporgli di sposarsi: lui, per tutta risposta, la scarica, sostenendo che non potrebbe mai sopportare di vivere una vita in cui fosse LEI a mantenere LUI: un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose così abominevole da spingerlo ad abbandonare il Vero Amore della sua vita in nome del suo orgoglio ferito. E America, pur con il cuore spezzato, non ha nulla da ridire sulla logica di questa cosa. Rendiamoci conto della forza d’animo della nostra protagonista: ammirevole.
Una volta scelta per partecipare alla Selezione, il registro cambia totalmente. Aspen sembra quasi sparito dal suo cuore e dai suoi pensieri. (E anche dal libro, in pratica). Fortuna che lo considerava il suo vero amore. Vai così, ragazza! Il rivale di Aspen, il principe Maxon, è un completo idiota. Non ha un carattere, praticamente. Non si può dire nulla di Maxon tranne che è un bambolotto. Come un piatto senza sale, olio o qualsiasi tipo di condimento: insipido e per niente appetitoso. Un grande “mah” sopra questo personaggio.
Immaginate, quindi, un triangolo amoroso con un cavernicolo da un lato, una cretina egocentrica in mezzo, e un bambolotto sull’altro lato. Sembra interessante? No, ecco. Semplicemente ti fa venir voglia di cancellarli tutti dalla tua mente, come se non fossero mai esistiti.
Terzo, ma non per ordine di importanza, il realismo: il mondo di The Selection non viene mai descritto benissimo. Quello che ci viene rivelato è che il mondo viene diviso in caste numerate, al cui vertice c’è la famiglia reale. La famiglia di America, invece, appartiene alla casta dei Cinque, che sarebbe la casta degli artisti. La Cass cerca di darci l’idea che America viva in una condizione di povertà, come dovrebbe essere per quelli appartenenti alla sua classe sociale, ma non ci riesce. Il perché? Incongruenze in ogni dove.
“Nessuna di noi due aprì bocca mentre preparavamo pollo, pasta e spicchi di mela e apparecchiavamo la tavola per cinque”
“Mise in tavola la teiera con un gesto nervoso. Il pensiero del tè al limone mi fece venire l’acquolina in bocca, ma avrei dovuto aspettare: era uno spreco berlo subito e poi essere costretta ad accontentarmi dell’acqua durante il pasto”
“La casa sull’albero era un cubo di due metri quasi al massimo e così baso che neanche Gerad riusciva a starci ritto in piedi.”
Ricapitolando, per Keira Cass la famiglia di America Singer è povera perché non può mangiare carne cinque volte al giorno, perché è costretta a bere acqua quando finisce il tè, e perché non hanno una casa sull’albero a tre piani. VAAAAAABENE.
Io vi ho raccontato un episodio, ma vi assicuro che durante tutto il romanzo ci sono altre scene che fanno veramente accapponare la pelle. Come il fatto che America non voglia partecipare alla Selezione, ma alla fine, una volta scelta, non vuole abbandonare il suo posto nella gara sebbene ne avesse più di una possibilità. Non esiste una cosa simile. Il romanzo è tutto basato su incongruenze sopra incongruenze. In pratica, un castello di carte destinato a crollare.
E per finire, lo stile: lo stile di questo libro lascia a desiderare. Non mi è piaciuto proprio per nulla. Ci sono volte in cui America – l’io narrante – sembra rivolgersi direttamente al lettore, con un tono informale, e delle volte che sembra proprio dimenticarsi della sua esistenza per scegliere una narrazione distaccata.
“Io non desideravo entrare a far parte della famiglia reale, essere una Uno. Non volevo nemmeno provarci! A proposito, dovete sapere che nel nostro Paese la popolazione è divisa in caste numerate dall’Uno all’Otto. Essere una Uno significa essere una nobile. Andai a rifugiarmi in camera… “
Ora, cara Keira Cass, bisogna che ti decidi. Non puoi fare un minestrone di stili differenti, e li piazzi lì a caso. Per la cronaca, a me i minestroni non sono mai, mai, MAI, piaciuti. Io, una narrazione del genere, in un libro che ha seguito il percorso editoriale tradizionale, non lo accetto. L’unica struttura che conosce penso sia quella delle interrogative, dirette e indiretta: più ce n’è, meglio è.
“Non è che si può cambiare la data di nascita di una divinità, giusto?”
È tutto un susseguirsi di frasi che terminano con “giusto?” “vero?” “d’accordo?”. Ma dove siamo? Il punto più grave, secondo me, è che non viene esposto in maniera chiara il suo rivolgersi al lettore. Questo stile deriva unicamente dall’incapacità della Cass di scrivere, che, tra l’altro, si rivela nel suo pieno splendore con descrizioni del tipo: “Era alto, ma non troppo. Magro, ma non troppo”. Queste descrizioni le potrei accettare da un bambino al suo primo racconto, non da uno scrittore di mestiere! Ma stiamo scherzando?! La scrittura non è un mestiere per tutti ed è ora di imparare a riconoscere gli scrittori validi da tutta quella gente che non sa scrivere ma che lo fa ugualmente.
Non consiglio questo romanzo a nessuno. A meno che non vogliate davvero farvi una lunga, lunghissima risata.